Big data e public decision making: la realtà è più complessa delle apparenze

Secondo un articolo scientifico del 2018, numerosi fattori influiscono sull’uso dei dati per la definizione di provvedimenti. Tra questi spiccano le differenze tra analisti e attori politici.

“The world’s most valuable resource is no longer oil, but data”. Così titolava un articolo pubblicato dal settimanale britannico The Economist nel maggio 2017, nel quale si evidenziava che nell’epoca della quarta rivoluzione industriale e delle grandi trasformazioni digitali in atto è l’enorme mole di dati garantita dalle molteplici applicazioni del Web la vera fonte di ricchezza globale, sulla scia di quanto avvenuto nel Novecento con il petrolio.

Il valore aggiunto che le informazioni rese disponibili da algoritmi, cloud, smartphone, social network e dataset di vario tipo (generalmente catalogate nelle macrovoci big data e smart datapossono portare alla nostra vita personale e lavorativa è un tema che negli ultimi anni è stato approfondito da studiosi e professionisti di vari settori, come testimoniato dalle numerose ricerche sui comportamenti dei consumatori che hanno portato alla scoperta di nuovi trend di mercato e all’affinamento delle scelte di business delle aziende proprio mediante un’analisi sistematica di flussi di dati in passato non disponibili.

Dunque, le riflessioni sull’uso dei big data non potevano non estendersi anche al campo del public decision making e dell’elaborazione delle strategie degli attori politici. La visione che finora ha prevalso, in ambito accademico e non, può essere in sostanza definita funzionale, dal momento che è opinione comune che in linea di principio i nuovi dati aiutino i decisori pubblici a optare per provvedimenti più efficienti ed efficaci di prima, poiché basati su informazioni di maggior quantità e qualità, disponibili più o meno in tempo reale.

Tuttavia, finora poco si è discusso di come i dati vengano in concreto sfruttati nelle varie fasi del processo di formazione delle decisioni pubbliche (dalla raccolta all’estrazione delle informazioni, fino alla scelta finale tra modelli alternativi di intervento) e dell’impatto che essi hanno sulle dinamiche politico-istituzionali nelle quali si inserisconoL’analisi di questi aspetti, in genere tralasciati dagli addetti ai lavori, è al contrario al centro del saggio “Rationality and politics of algorithms. Will the promise of big data survive the dynamics of public decision making?, pubblicato sulla rivista scientifica Government Information Quarterly nell’ottobre 2018 da un team di docenti: H.G. van Der Voort e A.J. Klievink della olandese Delft University of Tehnology, Michela Arnaboldi del Politecnico di Milano e A.J. Meijer della Utrecht School of Governance, anch’essa dei Paesi Bassi.

Nel cercare di valutare come i big data influenzino il public decision making e con quali meccanismi creino valore per gli attori politici, gli autori della ricerca hanno introdotto un autentico cambio di paradigma per il settore, concentrandosi sulle interazioni tra i soggetti protagonisti del procedimento che porta alla scelta di una determinata policy tra varie ipotesi disponibili e guardando alle informazioni fornite dalle tecnologie digitali come a uno strumento che può servire finalità anche contrapposte tra loro.

Difatti, nell’ottica dei quattro accademici non è possibile inquadrare l’impatto dei dati sulla messa a punto di una decisione politica adottando un unico punto di vista, dal momento che analisti e decisori hanno ruoli e priorità per definizione divergentiDifferenze, che possono essere rese esplicite individuando due logiche alla base delle rispettive condotte professionali: la ‘logica dell’informazione‘ e la ‘logica della decisione‘.La logica dell’informazione è propria degli analisti dei dati, la cui funzione è fondamentalmente di supporto agli attori politici, ai quali forniscono informazioni di qualità elevata, basate sull’esame di una grande quantità di variabili e su tecniche di elaborazione all’avanguardia. Di conseguenza, nella loro prospettiva la centralità dei big data risiede in una considerazione di metodo (le scelte dei provvedimenti finali saranno necessariamente positive, se basate su database che descrivono al meglio la realtà) e, soprattutto, nella varietà di fonti da cui derivano i dati stessi.

La logica della decisione è invece tipica dei decisori pubblici, la cui mansione è quella di tradurre informazioni in misure che dovranno rivelarsi efficaci e giustificate dagli eventi. Nella loro ottica la pluralità dei dati messi a disposizione dalle nuove frontiere della Rete non è di per sé un vantaggio, dal momento che nella fase di elaborazione degli input influiscono dinamiche prettamente umane, come l’abilità di scegliere con il massimo della razionalità possibile o la capacità di un team di coordinarsi al proprio interno. In altri termini, per gli attori politici è cruciale avere il pieno controllo delle fonti di informazione cui si affidano e ai loro occhi la questione più delicata è determinata dalla selezione dei dati disponibili, perché è lì che risolvono con il loro specifico punto di vista le varie dicotomie tra obiettivi e valori in gioco, fattore che si dimostra centrale nel public decision making.

Analogamente, gli accademici in questione individuano un secondo livello di distinzione in base alle caratteristiche con cui si sviluppa il processo di formazione delle decisioni pubbliche. Anche in questo caso, le idee più diffuse al riguardo sono che la rivoluzione dei big data produca informazioni migliori, che a loro volta portano alla definizione di interventi più efficaci, e che il procedimento decisionale si presenti come una sequenza di attività chiaramente distinte tra loro, dove ognuno degli attori coinvolti lavora per uno scopo condiviso da tutti.

In realtà, il processo di policy making appare più simile a una mediazione tra numerose parti in causa, dove nessuno dispone dei mezzi per imporre la propria volontà agli altri interlocutori e dove non è assolutamente scontato che chi riuscirà a veder prevalere le proprie soluzioni politiche in una singola circostanza avrà la meglio anche nelle occasioni successive. Inoltre, i decisori normalmente agiscono in un ambiente dove sono molto diffusi comportamenti determinati dalla necessità di tutelare interessi particolari, e non va sottovalutato che il più delle volte essi tendono a reagire alle informazioni quando queste riguardano temi ai loro occhi prioritari, il che non esclude la possibilità che vadano semplicemente alla ricerca di dati che legittimino opinioni pregresse e misure già immaginate. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, in base a quale parametro un’informazione è migliore di un’altra?

Pertanto, quando si valuta l’impatto dei big data sulle decisioni pubbliche risulta possibile introdurre una distinzione tra ‘prospettiva razionale’ e ‘prospettiva politica’, in base alla quale la prima implica un processo nitido in cui i dati migliorano i risultati degli step in cui entrano in gioco le informazioni, mentre la seconda presuppone un procedimento irregolare, al cui interno sono gli obiettivi di tipo politico-ideologico a determinare in parte quando, dove e come ci sia spazio per i dati.

Incrociando le quattro dimensioni appena esposte (logica dell’informazione, logica della decisione, prospettiva razionale e prospettiva politica) gli autori hanno dato vita a una matrice 2×2, in cui hanno incluso le loro teorie sui possibili effetti dell’applicazione dei nuovi flussi di dati al public decision making. Teorie, che possono essere sintetizzate come di seguito:  

 

  • Ottimizzazione dell’informazione’: i big data impattano sulla formazione delle decisioni pubbliche consentendo agli analisti di fornire migliori informazioni ai decisori. Questa dimensione scaturisce dall’incontro tra logica dell’informazione e prospettiva razionale, e sottintende che la conseguenza fondamentale dell’uso dei dati risieda nella garanzia di indicazioni rilevanti per uno scopo ben determinato.
  • Ottimizzazione della decisione’: il ricorso ai big data permette ai decisori di assorbire informazioni dagli analisti. Frutto della giustapposizione tra logica della decisione e prospettiva razionale, questa categoria dà risalto al potere dei dati di dare luogo a scelte politiche basate su evidenze di fatto.
  • Politica degli algoritmi‘: l’uso dei big data fa sì che gli analisti perseguano i loro interessi mentre raccolgono informazioni per gli attori politici. Risultato dell’unione tra logica dell’informazione e prospettiva politica, in questo contesto rientrano i casi in cui la complessità degli algoritmi da cui traggono significato i dati fa sì che i decisori non ne comprendano appieno la portata, lasciando spazio alle iniziative degli analisti, in molte circostanze autentici responsabili delle scelte finali.
  • Mercato dell’informazione‘: i big data influiscono sul public decision making garantendo ai decisori la possibilità di rincorrere i propri obiettivi mentre assimilano le informazioni che vengono offerte loro dagli analisti. Prodotto dell’incrocio tra logica della decisione e prospettiva politica, in questa fattispecie gli attori politici barattano informazioni con il compimento dei propri disegni, divenendo clienti di un mercato reso ancora più grande dall’aumentata disponibilità di dati.

Ognuno degli scenari descritti offre un differente spunto di riflessione, e nessuna delle opzioni presentate è da sola in grado di rispondere appieno all’interrogativo su quali siano le esatte conseguenze dell’utilizzo dei big data nel campo delle decisioni pubbliche. Ciò apre la strada a un’ulteriore domanda: quali opportunità concrete possono fornire i dati ad analisti e decisori per svolgere ancora meglio le rispettive mansioni o, al contrario, per curare interessi particolari mentre formalmente lavorano per raggiungere uno scopo comune?

Al fine di diradare i dubbi sulla questione e valutare l’attendibilità della loro matrice, gli artefici della ricerca hanno puntato sull’analisi di due casi di studio, accomunati dal ruolo fondamentale dei big data nel dare vita a entrambi i progetti oggetto di approfondimento.

Da un lato è stato preso in considerazione la ‘mappa interattiva’ sugli episodi di rapine e furto con scasso nella città olandese di Tilburg, costruito tra il 2013 e il 2015 attingendo a database così capillari da permettere di osservare in tempo reale il tasso di criminalità di ogni quartiere dell’abitato, mentre dall’altro a essere approfondito è stato un sistema di monitoraggio digitale di Milano per valutarne il grado di internazionalità (rientrante del progetto Urbanscope del Politecnico), messo a punto dal 2014 fino a luglio 2016, quando nel Comune si andò al voto per eleggere il Sindaco.

I due casi hanno consentito agli autori di attestare la plausibilità del modello risultante dall’intersezione tra logica dell’informazione, logica della decisione, prospettiva razionale e prospettiva politica, dimostrando che il ricorso ai dati in contesti di public decision making offre sia agli analisti che agli attori politici la possibilità di aggiungere valore al processo che porta alle scelte finali di intervento.

Partendo dalla dimensione dell’ottimizzazione dell’informazione, tanto nel contesto di Tilburg quanto in quello di Milano il valore aggiunto dei big data rispetto ai dati tradizionali è apparso evidente nella fase di raccolta delle informazioni, dal momento che in ambedue le situazioni è stato possibile mettere in comunicazione banche dati che prima non avevano mai ‘parlato’ tra loro. Nel contesto olandese, ciò ha fatto sì che gli analisti, gestendo in prima persona il procedimento di raccolta, potessero individuare nuovi trend di criminalità per poi sottoporli ai funzionari titolari delle decisioni in materia, il che rende evidente come l’afflusso di dati abbia effettivamente permesso loro di supportare al meglio i decisori.

Per quanto concerne l’ottimizzazione della decisione, va evidenziato che la mappa interattiva della città olandese ha permesso agli attori politico-istituzionali di prendere provvedimenti per contrastare il crimine basandosi sulle informazioni disponibili per ogni quartiere, senza più ricorrere a strategie slegate dalla situazione sul campo. Tuttavia, i dati da soli non sono sufficienti per dare vita a decisioni efficienti ed efficaci, in quanto se non interpretati nel giusto modo e se non letti con strumenti adeguati alla loro comprensione possono dire ben poco ai decisori che li ricevono. Dunque, nei processi di policy making il contribuito in termini di competenza ed esperienza garantito dagli attori politici risulta fondamentale, e difficilmente può essere sostituito dall’abilità degli analisti nel dare un senso alle informazioni che elaborano. Da ciò si evince che i big data agevolano i decisori nell’assimilare gli input che vengono loro destinati, ma altresì che l’utilità dei dati non deriva semplicemente dalla loro quantità o qualità.

Dal lato della politica degli algoritmi, in entrambi i casi di studio sono state riscontrate situazioni in cui gli analisti hanno preso decisioni rilevanti per la conduzione dei progetti, intervenendo ad affinare algoritmi e database in modo tale da indirizzare, consapevolmente o meno, gli esiti delle ricerche. Talvolta, inoltre, la velocità in ingresso dei dati ha portato gli analisti ad anticipare i desiderata dei decisori pubblici, facendo leva sulla loro maggiore reattività nel digerire nuove informazioni. Di conseguenza, è emerso con chiarezza il potere considerevole che gli analisti di dati hanno nel modellare i trend ricavabili dal ricorso ai big data e nell’adattarli a esigenze politiche. Quindi, per quanto sia difficile individuare le reali intenzioni degli analisti, per essi c’è ampia possibilità di perseguire obiettivi in contrasto con la loro missione, la quale resta quella di assistere i decisori.

Passando in ultima istanza al mercato dell’informazione, va ricordato che gli attori politici nel prendere decisioni non sempre privilegiano le informazioni ricavate dai big data, anche qualora si rivelino di facile lettura. Solo per fare un esempio, gli autori fanno presente che il Sindaco di Tilburg in più di un’occasione è intervenuto in autonomia con provvedimenti di pubblica sicurezza, bypassando l’oggettività della mappa interattiva per dare spazio a segnalazioni di singoli cittadini. Pertanto, episodi di questo genere testimoniano come, al cospetto delle informazioni di cui sono destinatari, i decisori possono agire come se fossero dei consumatori cui spetta decidere se un prodotto soddisfa o meno le loro esigenze, arrivando talvolta a interferire direttamente con il lavoro degli analisti.

In definitiva, se è vero che in assoluto i big data presentano le potenzialità per trasformare in meglio il public decision makingper giudicare le conseguenze dell’uso dei dati per fini generali e per comprendere le dinamiche delle interazioni tra decisori e analisti vanno tenute presenti tutte le opzioni esposte finora, senza alcuna preclusione verso un determinato punto di vista.

Inoltre, non si può non notare come la politica, con le sue strategie e il suo contrapporre valori e obiettivi alternativi, sia ben presente in tutte le fasi del processo di formazione delle decisioni pubbliche, né che analisti e decisori abbiano più i tratti delle variabili indipendenti che non quelli di anelli di un’unica catena. In quest’ultimo senso, il sempre maggior ricorso ai nuovi flussi di dati sta portando a un cambiamento nei rapporti tra le due categorie, sollevando problemi di fiducia e trasparenza tra professionisti con etiche diverse, determinati dalla volatilità e dalla complessità di elaborazione delle informazioni.

Tornando sulla metafora del nuovo petrolio formulata da The Economist, in considerazione delle ulteriori svolte tecnologiche che attendono la società digitale in cui viviamo (solo per citare le più imminenti, Internet of Things e reti di telecomunicazione 5G) è necessario che i dati possano circolare senza ostacoli di alcun tipo per sfruttare al meglio la loro spinta propulsiva, e ancor di più risulta cruciale che a livello generale si prenda coscienza del ruolo fondamentale che i big data sono destinati a giocare in ogni ambito, pena la prospettiva di trasformarsi in ‘cittadini dimezzati’ poiché esclusi da innovazioni potenzialmente rivoluzionarie.

Per il campo della politica e del public decision making, tutto ciò si traduce in un ‘imperativo categorico’ di accantonare le visioni eccessivamente razionali sull’uso dei dati che l’hanno fatta da padrone finora, prendendo coscienza (come suggerito da van Der Voort, Klievink, Arnaboldi e Meijer) della vera natura dei processi che portano alla scelta di un determinato intervento normativo e delle peculiarità dell’interazione che sarà sempre più sottintesa a ogni misura che impatterà sui cittadini: quella tra analisti dei dati e attori politici di tutti i livelli. Le motivazioni e gli scopi alla base delle rispettive condotte nel raccogliere, elaborare e declinare un numero di informazioni senza precedenti avranno ripercussioni ben più ampie che in passato, e risulta pertanto indispensabile che la discussione di questi temi non si limiti alle aule di Università e Istituzioni.

 

 

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