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Quando sentiamo la parola lobby, la associamo quasi sempre a un’immagine negativa: quella di gruppi ben finanziati che cercano di influenzare i decisori politici a proprio vantaggio, spesso a scapito dell’interesse generale. Nel dibattito pubblico e anche nelle teorie della democrazia deliberativa, i gruppi di interesse (o lobby) sono infatti percepiti come un ostacolo: portatori di potere economico più che di ragioni.
Eppure, nell’articolo Lobbying and deliberation: interest groups as key agents of deliberative systems (recentemente pubblicato sulla rivista Contemporary Politics, lo trovate in open access qui), Alberto Bitonti propone una provocazione: e se i gruppi di interesse potessero diventare attori chiave della democrazia deliberativa? Non più “disturbatori”, ma protagonisti di arene dove si discutono politiche pubbliche in modo aperto, trasparente e basato sul merito degli argomenti.
Perché coinvolgere i gruppi di interesse?
Bitonti individua tre vantaggi principali nell’inserire i gruppi di interesse dentro spazi deliberativi strutturati:
In più, se tutti i soggetti interessati si sentono ascoltati, aumenta la fiducia nelle istituzioni, anche da parte di chi non ottiene ciò che desiderava.
Bitonti descrive tre scenari in cui i gruppi di interesse possono migliorare la qualità della deliberazione:
L’autore dedica una sezione ampia dell’articolo alle possibili obiezioni. Eccone alcune tra le più rilevanti:
“Il lobbying non è deliberazione, è potere economico travestito da dialogo.”
Bitonti risponde che, se si escludono pratiche di corruzione, il lobbying è spesso competizione di argomenti. Con adeguate regole – registri di trasparenza, inclusione di voci deboli, arene pubbliche – si può rendere il lobbying più deliberativo.
“Ma dov’è la democrazia, se deliberano i gruppi e non i cittadini?”
La distinzione sta nei ruoli: i gruppi deliberano, i decisori democraticamente eletti e legittimati prendono la decisione finale, motivandola anche alla luce delle posizioni emerse.
“I gruppi più forti cattureranno comunque il processo.”
Le disuguaglianze non spariranno, ammette l’autore. Ma un’arena aperta e regolata può attenuarle, spostando il fuoco dell’influenza dalle risorse economiche o dall’accesso privilegiato al merito degli argomenti.
L’idea di Bitonti appartiene a un approccio che potremmo definire di realismo deliberativo: accettare che la politica non sia un campo neutrale di dialogo tra cittadini e gruppi tutti uguali, ma un’arena di interessi e poteri. Invece di immaginare un mondo senza lobby, è più utile riconoscere che i gruppi sono parte strutturale della politica, chiedendosi come trasformarli da ostacolo a risorsa per decisioni più informate, inclusive ed efficaci.
Da qui la proposta di ripensare la regolazione del lobbying: non solo come strumento di trasparenza, ma come dispositivo per favorire arene deliberative dove gruppi diversi possano confrontarsi apertamente, contribuendo a decisioni più informate, legittime ed efficaci.