Referendum e firme digitali: la tecnologia sia un mezzo, non un fine

Il via libera all’uso di SPID per sottoscrivere quesiti e leggi d’iniziativa popolare ha dato il la a un dibattito sul rischio di campagne referendarie permanenti. L’innovazione degli strumenti di democrazia diretta è una buona notizia ma sono necessari correttivi per non snaturare il sistema

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Il riferimento è al Sistema pubblico di identità digitale (SPID), ovvero l’identità digitale composta da una coppia di credenziali strettamente personali (utilizzabile indifferentemente da computer, smartphone e tablet) e rilasciata dagli Identity provider accreditati dall’Agenzia per l’Italia digitale (AGID). Quali sono i rischi? e quali le opportunità?

SPID rappresenta uno dei pilastri della strategia Italia Digitale 2026 associata al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nella quale si fissa l’obiettivo di far arrivare l’identità digitale ad almeno il 70% della popolazione italiana entro i prossimi cinque anni, e da venerdì 1° ottobre costituisce (assieme alla Carta d’identità elettronica e alla Carta Nazionale dei Servizi) una delle porte di accesso principali alle prestazioni online della PA.

In parallelo a questa sua funzione nell’avvicinare lo Stato a cittadini e imprese, a partire dallo scorso mese di luglio l’utilizzo di SPID è stato esteso anche a un ambito altrettanto di rilievo: la raccolta di firme a sostegno di referendum (sia abrogativi che confermativi di riforme costituzionali) e proposte di legge di iniziativa popolare. L’articolo 38-quater del cosiddetto Decreto Semplificazioni, introdotto dalla Camera durante l’iter di conversione del DL, ha infatti dato il via libera alla possibilità di ottenere in formato digitale le sottoscrizioni necessarie (500 mila per i referendum, 50 mila per le leggi di iniziativa popolare) per attivare gli istituti di democrazia diretta riconosciuti dalla nostra Costituzione, prevedendo un’apposita piattaforma pubblica in attesa della quale i comitati promotori delle singole consultazioni avranno la responsabilità di provvedere alla raccolta online mediante un documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata.

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Nel primo caso le sottoscrizioni digitali hanno recitato un ruolo chiave a sostegno di quanto raccolto dagli organizzatori con i tradizionali banchetti, mentre nel secondo i promotori hanno addirittura scelto di affidarsi esclusivamente al canale online (offrendo soluzioni alternative ai cittadini sprovvisti di SPID), ottenendo centinaia di migliaia di firme in meno di una settimana, un traguardo quasi impossibile da raggiungere con strumenti analogici.

Questi episodi hanno dato il via, nelle settimane appena trascorse, a un dibattito all’interno della classe politica e tra esperti di diritto costituzionale in merito al rischio di assistere alla nascita di una ‘SPID democracy’, dove la facilità di raccogliere firme sul Web (a titolo di esempio, chi scrive ha potuto sottoscrivere il quesito sulla cannabis col proprio smartphone in poco più di un minuto) rischierebbe di dare vita a continue campagne referendarie sugli argomenti più disparati, con il rischio di svuotare di significato la delega che gli elettori attribuiscono al Parlamento con il voto e di trascinare il Paese in un’assemblea condominiale permanente dove ci sarebbe spazio soltanto per posizioni polarizzate, senza alcuna agibilità per le mediazioni e i compromessi che costituiscono la quintessenza della politica.

In tal senso, non sono mancati gli inviti a correre ai ripari per riequilibrare il rapporto tra democrazia rappresentativa e partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche.

Tra le molte proposte su cui si è concentrata la discussione, merita particolare menzione la soluzione su due livelli suggerita dal costituzionalista Francesco Clementi in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore: da un lato – intervenendo sulla Costituzione – innalzare da 500 a 800 mila il numero di sottoscrizioni necessarie per indire un referendum e calcolare il quorum delle consultazioni sui partecipanti alle ultime elezioni Politiche, dall’altro – modificando la Legge del 1970 che ha istituito referendum e iniziativa legislativa popolare – anticipare il giudizio della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti referendari a quando sia stata raggiunta la soglia di 100 mila firme, in modo che la Consulta possa esprimersi con serenità e al fine di evitare potenziali disillusioni tra i cittadini che abbiano preso parte a una campagna referendaria.

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Come noi di Adl Consulting ci eravamo chiesti nel 2019 con il report ‘L’era della democrazia digitale, “se le nostre vite sono state così pesantemente toccate dalla rivoluzione digitale, come è cambiata invece la nostra vita come collettività? È possibile pensare a cambiamenti altrettanto evidenti nel nostro modo di essere cittadini, di votare, di adottare decisioni politiche o di implementare politiche pubbliche?”.

A questa domanda avevamo risposto “no, ma anche sì”.

No, dal momento che “la democrazia funziona essenzialmente ancora come è stata concepita più di due secoli fa (come democrazia rappresentativa costituzionale)”, ma anche sì “perché le possibilità di innovare quella stessa democrazia sono sempre più alla portata di istituzioni pubbliche, cittadini e organizzazioni private, che contribuiscono a ripensare procedure, innovare processi, sperimentare nuove forme, avanzare idee su come reinventare la democrazia nell’era digitale.

Esattamente quel che è accaduto per i referendum, e che succederà ancora in futuro.

 

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